Venerdì, 24 Giugno 2011 13:29

La primavera araba

Scritto da  Gerardo

Riceviamo da Luigi De Paoli un saggio (pubblicato da Punto Rosso) di Samir Amin, noto studioso egiziano di geopolitica. Importante per capire la storia e le motivazioni degli attuali sconvolgimenti nel mondo arabo.
Buona lettura!






La primavera araba
Samir Amin (Traduzione di Nunzia Augeri)

L’anno 2011 si è aperto con una serie di clamorose esplosioni di collera dei popoli arabi.
Questa primavera araba darà inizio a una seconda fase del “risveglio del mondo arabo”?
Oppure queste rivolte sono destinate a ristagnare e infine a spegnersi – come è stato il caso del primo risveglio ricordato nel mio libro L’éveil du Sud. Nella prima ipotesi, le conquiste del mondo arabo dovranno iscriversi necessariamente nel movimento teso a superare il capitalismo/imperialismo su scala mondiale. Un eventuale fallimento farebbe permanere il mondo arabo nel suo stato attuale di periferia dominata, impedendogli di diventare protagonista attivo nella costruzione del mondo.

E’ sempre rischioso parlare in generale del “mondo arabo”, ignorando perciò stesso la diversità di condizioni oggettive che caratterizza ognuno dei paesi di quel mondo. Focalizzerò quindi le mie riflessioni sull’Egitto, un paese di cui si riconoscerà facilmente il ruolo importante che ha sempre svolto nell’evoluzione generale della regione.
L’Egitto è stato il primo paese della periferia del capitalismo globalizzato che ha tentato di “emergere”. Molto prima del Giappone e della Cina, all’inizio del XIX secolo, Mohammed Ali aveva ideato e attuato un progetto di rinnovamento dell’Egitto e dei suoi vicini immediati del Mashrek arabo. Questa esperienza, molto importante, ha occupato i due terzi del XIX secolo e si è inceppata solo nella seconda metà del regno del Khedivé Ismail, nel corso degli anni 70.

L’analisi del suo fallimento non può ignorare la violenza dell’aggressione esterna sferrata dalla maggior potenza del capitalismo industriale dell’epoca, la Gran Bretagna. Per due volte, prima nel 1840 e poi negli anni 70, assumendo il controllo delle finanze egiziane, e infine con l’occupazione militare (1882), la Gran Bretagna ha perseguito ostinatamente il suo obiettivo: impedire che emergesse un Egitto moderno. Il progetto egiziano aveva indubbiamente dei limiti, intrinseci all’epoca, poiché si trattava evidentemente di un progetto definito entro e per mezzo del capitalismo, diversamente dal secondo tentativo egiziano (1919-1967), sul quale tornerò.
Le contraddizioni sociali insite in quel progetto, nonché le concezioni politiche, ideologiche e culturali su cui si fondava, hanno avuto la loro parte di responsabilità nell’insuccesso. Tuttavia, senza l’aggressione dell’imperialismo quelle contraddizioni sarebbero state superabili, come suggerisce l’esempio giapponese.

L’Egitto emergente, con la sconfitta, è stato allora mantenuto per più di quarant’anni nello stato di periferia dominata, e le sue strutture sono state rimodellate per consentire l’accumulazione capitalistica/imperialistica dell’epoca. La regressione allora imposta ha colpito, oltre al sistema produttivo, le strutture politico-sociali del paese, che si è impegnato a rafforzare sistematicamente le concezioni ideologiche e culturali passatiste e reazionarie utili a mantenerlo nel suo stato di subordinazione.
L’Egitto, cioè il suo popolo, le sue élites, la nazione che esso rappresenta, non ha mai accettato quella situazione. Il suo rifiuto ostinato è all’origine di una seconda ondata di movimenti di ascesa nel mezzo secolo seguente (1919-1967). Infatti io leggo questo periodo come un momento ininterrotto di lotte e di conquiste importanti. L’obiettivo era triplice: democrazia, indipendenza nazionale, progresso sociale.

Tre obiettivi – quali che ne siano state le formulazioni, a volte limitate e confuse – che sono indissociabili l’uno dall’altro.
D’altra parte questa interrelazione degli obiettivi non è altro che l’espressione degli effetti provocati dall’adattarsi dell’Egitto moderno al sistema del capitalismo/imperialismo mondializzato dell’epoca. Con questa chiave di lettura, il capitolo che si è aperto con la cristallizzazione nasseriana (1955-1967) è solo l’ultima fase del lungo momento di avanzata delle lotte, inaugurato dalla rivoluzione del 1919-1920.

Il primo momento di questo mezzo secolo di lotte di emancipazione in Egitto aveva posto l’accento sulla modernizzazione politica – con la costituzione del Wafd nel 1919 – adottando una forma borghese di democrazia costituzionale, nonché sulla riconquista dell’indipendenza. La forma democratica che avevano immaginato permetteva un’avanzata della laicità – se non laica nel senso radicale del termine – la cui bandiera (che associava la mezzaluna e la croce, ed è riapparsa nelle manifestazioni di gennaio-febbraio 2011) ne costituisce il simbolo. Le elezioni “normali” permettevano allora a dei copti non solo di essere eletti da maggioranze musulmane, ma anche di svolgere altissime funzioni di Stato, senza il minimo problema.

Tutto lo sforzo della potenza britannica, attivamente sostenuta del blocco reazionario costituito da monarchia, grandi proprietari e contadini ricchi, è stato diretto a ricacciare indietro i progressi democratici dell’Egitto wafdista. La dittatura di Sedki Pascià negli anni 30 (abolizione della costituzione democratica del 1923) si è scontrata con il movimento studentesco, allora punta di lancia delle lotte democratiche antimperialistiche. Non è un caso che, per ridurne i pericoli, l’ambasciata britannica e Palazzo reale abbiano allora appoggiato attivamente la creazione dei Fratelli musulmani (1927) che si ispiravano al pensiero “islamista” nella versione “salafita” (passatista) dei Wahabiti, formulata da Rashid Reda, cioè la versione più reazionaria (antidemocratica e anti progresso sociale) del nuovo “Islam politico”.

Con la conquista dell’Etiopia da parte di Mussolini e la prospettiva di una guerra mondiale, Londra si trovò obbligata a fare delle concessioni alle forze democratiche, permettendo il ritorno del Wafd nel 1936 e la firma del Trattato anglo-egiziano dello stesso anno – con un Wafd esso stesso “addomesticato”. La seconda guerra mondiale costituì – per forza di cose – una specie di parentesi. Ma il flusso dell’ondata di lotta ha ripreso dal 21 febbraio 1946, con la costituzione del blocco studenti-operai, ulteriormente radicalizzato dall’ingresso sulla scena dei comunisti e del movimento operaio. Le forze della reazione egiziana, sempre appoggiate da Londra, hanno allora reagito con violenza e hanno mobilitato i Fratelli musulmani che hanno sostenuto una seconda dittatura di Sedki Pascià, senza peraltro riuscire a stroncare il movimento. Il Wafd è tornato al governo, ha denunciato il Trattato del 1936, nella zona del Canale ancora occupata si è accesa la guerriglia: tutto è finito con l’incendio del Cairo del 1951, un’operazione in cui sono stati sicuramente invischiati i Fratelli musulmani.

Il primo colpo di stato degli Ufficiali liberi (1952), ma soprattutto il secondo che porta Nasser al potere (1954) sono venuti a “coronare” questo periodo di flusso continuo delle lotte secondo alcuni, o per darvi una conclusione, secondo altri. Il nasserismo ha sostituito alla lettura che io propongo del risveglio egiziano una discorso ideologico che annulla tutta la storia degli anni 1919-1952 per far risalire la “rivoluzione egiziana” al luglio del 1952. In quel momento, molti comunisti avevano denunciato questa impostazione e avevano messo in luce come i colpi di stato del 1952 e 1954 avessero lo scopo di porre termine alla radicalizzazione del movimento democratico. Non avevano torto, giacché il nasserismo si è definito come progetto antimperialistico solo dopo Bandung (aprile 1955). Il nasserismo ha realizzato solo allora che cosa poteva dare: una posizione internazionale decisamente antimperialistica (associata al movimento panarabo e a quello panafricano), delle riforme sociali progressiste (ma non “socialiste”). Il tutto però dall’alto, non soltanto “senza democrazia” (vietando alle masse popolari di organizzarsi da sé e per sé), ma “abolendo” ogni forma di vita politica.

Il vuoto così creato chiamava, per riempirlo, l’Islam politico.
Il progetto ha quindi esaurito il suo potenziale di progresso in un tempo breve – dieci anni dal 1955 al 1965. Il suo affanno offriva all’imperialismo – ormai diretto dagli Stati Uniti – l’occasione di spezzare il movimento mobilitando il loro strumento militare della regione, Israele. La sconfitta del 1967 equivale alla sconfitta di quel mezzo secolo di flusso.

Il riflusso inizia con lo stesso Nasser che sceglie la strada delle concessioni a destra (l’infitah, l’apertura alla mondializzazione capitalistica) invece della radicalizzazione per la quale si battevano, fra gli altri, gli studenti (il loro movimento occupa la scena nel 1970, poco prima della morte di Nasser). Sadat, che gli succede, accentua la deriva a destra e i Fratelli musulmani entrano nel suo nuovo sistema autocratico.

Mubarak prosegue sulla stessa strada.
Il periodo di riflusso che segue (1967-2011) copre a sua volta quasi mezzo secolo. L’Egitto, asservito alle esigenze del liberismo globalizzato e alla strategia degli Stati Uniti, cessa di esistere come protagonista attivo a livello regionale e internazionale. Nella regione i principali alleati degli Stati Uniti – l’Arabia saudita e Israele – salgono alla ribalta. Israele può cominciare a espandere la sua colonizzazione della Palestina occupata, con la tacita complicità del’Egitto e dei paesi del Golfo.

L’Egitto di Nasser aveva instaurato un sistema economico e sociale criticabile ma coerente.
Nasser aveva scommesso sull’industrializzazione per uscire dalla specializzazione internazionale coloniale che relegava il paese all’esportazione del cotone. Questo sistema ha assicurato una distribuzione dei redditi favorevole alle classi medie in espansione, senza impoverire le classi popolari. Sadat e Mubarak hanno operato per smantellare il sistema produttivo egiziano, al quale hanno sostituito un sistema totalmente incoerente, fondato solo sulla ricerca dei profitti delle imprese, che per la maggior parte operano in appalto per conto dei monopoli imperialistici. Da trent’anni la Banca mondiale esalta i tassi di crescita egiziani, che sarebbero alti, ma che non hanno di fatto alcun significato. La crescita egiziana è estremamente vulnerabile, ed è accompagnata da crescenti diseguaglianze e da una disoccupazione che colpisce la maggioranza dei giovani. Era una situazione esplosiva: ed è esplosa.

L’apparente “stabilità del regime” vantata da Washington riposava su un apparato poliziesco mostruoso (1.200.000 uomini contro i 500.000 dell’esercito), che esercitava quotidianamente abusi criminali. Le potenze imperialiste sostenevano che questo regime “proteggeva” l’Egitto dall’alternativa islamista. Si tratta di una grossolana menzogna. Di fatto il regime aveva inglobato perfettamente l’Islam politico reazionario (il modello wahabita del Golfo) nel suo sistema di potere, concedendogli di gestire l’istruzione, la giustizia e dei media importanti (per esempio, la televisione). Il solo discorso autorizzato era quello delle moschee affidate ai Salafiti, permettendogli inoltre di far finta di essere “l’opposizione”. La cinica duplicità del discorso dell’establishment statunitense (e qui Obama non è diverso da Bush) serve perfettamente ai suoi obiettivi. Il sostegno accordato all’Islam politico annulla le capacità della società di affrontare le sfide del mondo moderno (è all’origine del declino catastrofico dell’istruzione e della ricerca), mentre la denuncia occasionale degli “abusi” di cui è responsabile (l’assassinio dei copti, per esempio) serve a legittimare gli interventi militari di Washington, impegnato nella cosiddetta “guerra al terrorismo”. Il regime poteva sembrare “tollerabile” finché funzionava la valvola di scarico dell’emigrazione in massa dei poveri e delle classi medie verso i paesi del petrolio.

L’esaurirsi del sistema (con la sostituzione degli immigrati asiatici a quelli provenienti dai paesi arabi) ha fatto rinascere le resistenze. Gli scioperi operai del 2007 – i più importanti del continente africano da 50 anni in qua – la resistenza ostinata dei piccoli contadini minacciati di esproprio dal capitalismo agrario, la formazione di cerchie di protesta democratica fra le classi medie (i movimenti Kefaya e del 6 aprile) annunciavano l’inevitabile esplosione – che in Egitto era attesa, mentre ha sorpreso gli “osservatori stranieri”. Siamo dunque entrati in una nuova fase del flusso di lotte di emancipazione, di cui dobbiamo analizzare la direzione e le possibilità di sviluppo.


Le componenti del movimento democratico

La “rivoluzione egiziana” oggi in corso dimostra la possibilità della fine del sistema “neoliberista”, rimesso in discussione in tutte le sue dimensioni politiche, economiche e sociali. Questo gigantesco movimento del popolo egiziano associa tre componenti attive: i giovani “ri-politicizzati” di loro volontà e in forme “moderne” che essi stessi hanno inventato, le forze della sinistra radicale e quelle delle classi medie democratiche. I giovani (circa un milione di abitanti) sono stati la punta di lancia del movimento. Sono stati subito affiancati dalla sinistra radicale e dalle classi medie democratiche. I Fratelli musulmani, i cui dirigenti nei primi quattro giorni avevano chiamato al boicottaggio delle manifestazioni, (convinti che sarebbero state sconfitte dalla repressione) hanno accettato solo tardivamente il movimento, quando l’appello, accolto dall’insieme del popolo egiziano, ha portato a gigantesche mobilitazioni di 15 milioni di manifestanti.

I giovani e la sinistra radicale hanno tre obiettivi comuni: restaurare la democrazia (la fine del regime militare e poliziesco), inaugurare una nuova politica economica e sociale favorevole alle classi popolari (rifiutando di assoggettarsi alle esigenze del liberismo globalizzato) e una politica internazionale indipendente (rifiutando di assoggettarsi alle esigenze dell’egemonia degli Stati Uniti e del suo controllo militare del pianeta). La rivoluzione democratica alla quale essi chiamano è una rivoluzione democratica antimperialistica e sociale.

Le classi medie si sono unite con l’unico obiettivo della democrazia, senza necessariamente mettere in discussione il “mercato” (quale è oggi) e l’allineamento internazionale dell’Egitto. Non va ignorato il ruolo di un gruppo di blogger che partecipano – consapevolmente o meno – a un vero complotto organizzato dalla CIA. Ne sono animatori dei giovani delle classi agiate, americanizzati all’estremo, che posano comunque a “contestatori” delle dittature esistenti. Nei loro interventi sulla rete domina il tema della democrazia, nella versione imposta da Washington. In questo modo partecipano alla catena degli attori delle controrivoluzioni orchestrate da Washington e mascherate da “rivoluzioni democratiche”, sul modello delle “rivoluzioni colorate” dell’Europa orientale. Ma si avrebbe torto a concludere che questo complotto è all’origine delle rivolte popolari. La CIA peraltro tenta di rovesciare il senso del movimento, di allontanare i militanti dai loro scopi di trasformazione sociale progressista e di deviarli su altri terreni. Le possibilità di successo di questo complotto diventano serie se il movimento non riuscirà a far convergere le diverse componenti, a identificare gli obiettivi strategici comuni e a inventare forme efficaci di organizzazione e di azione. Si conoscono degli esempi di questi insuccessi, per esempio in Indonesia e nelle Filippine.

La repressione, che i primi giorni è stata di estrema violenza (più di un migliaio di morti) non ha scoraggiato i giovani e i loro alleati (che mai, in nessun momento, hanno chiamato in soccorso le potenze occidentali, Il loro coraggio è stato l’elemento decisivo che ha trascinato nella protesta circa quindici milioni di manifestanti, per giorni e giorni (e anche di notte) in tutti i quartieri delle città grandi e piccole, e perfino nei villaggi. Questo folgorante successo politico ha prodotto i suoi effetti: la paura ha cambiato campo: Hillary Clinton e Obama hanno scoperto che bisognava mollare Mubarak, che fino a quel momento avevano sostenuto, mentre i dirigenti dell’esercito uscivano dal silenzio, rifiutavano di partecipare alla repressione – salvando la loro immagine – e infine deponevano Mubarak e alcuni dei suoi maggiori sostenitori.

Generalizzare il movimento all’insieme del popolo egiziano è in sé una sfida positiva, giacché esso, come tutti gli altri, non costituisce un “blocco omogeneo”. Alcuni segmenti che lo compongono rafforzano incontestabilmente la prospettiva di una radicalizzazione possibile. La discesa in battaglia della classe operaia (circa 5 milioni di lavoratori) può essere decisiva. I lavoratori in lotta ( con numerosi scioperi) hanno fatto avanzare forme di organizzazione abbozzate fin dal 2007. Si contano ormai più di cinquanta sindacati indipendenti. La resistenza ostinata dei piccoli contadini alle espropriazioni rese possibili dall’annullamento della riforma agraria (i Fratelli musulmani hanno votato in parlamento a favore di queste leggi scellerate, col pretesto che la proprietà privata sarebbe “sacra” nell’Islam e che la riforma agraria era ispirata dal diavolo comunista) contribuisce alla possibile radicalizzazione del movimento.

Inoltre una massa gigantesca di “poveri” ha partecipato attivamente alle manifestazioni del febbraio 2011 e si ritrova spesso nei comitati popolari costituiti nei quartieri per “difendere la rivoluzione”. Questi “poveri” possono dare l’impressione (con le loro barbe, i veli, l’abbigliamento bizzarro) che il paese profondo sia “islamico”, cioè mobilitato intorno ai Fratelli musulmani. Di fatto, la loro entrata in scena si è imposta alla direzione dell’organizzazione. E’ quindi iniziata la corsa: fra i Fratelli musulmani e i loro alleati islamisti o l’alleanza democratica, chi riuscirà a formulare delle alleanze efficaci con le masse disorientate, cioè a “inquadrarle” (termine che io rifiuto)?

In Egitto sono in corso progressi non trascurabili nella costruzione del fronte unito delle forze democratiche e dei lavoratori. Cinque partiti di orientamento socialista nell’aprile del 2011 hanno costituito un’Alleanza delle forze socialiste, e si sono impegnati a proseguire con quel mezzo le loro lotte in comune. Parallelamente, tutte le forze politiche e sociali del movimento (i partiti di orientamento socialista, i diversi partiti democratici, i sindacati indipendenti, le organizzazioni contadine, la rete dei giovani, numerosi associazioni sociali) hanno costituito un Consiglio nazionale (Maglis Watany). I Fratelli musulmani e i partiti di destra hanno rifiutato di partecipare a questo Consiglio, riaffermando così quanto risaputo: la loro opposizione a proseguire il movimento. Il Consiglio raduna circa 150 componenti.

Di fronte al movimento democratico: il blocco reazionario
Proprio come nel flusso di lotte del passato, il movimento democratico antimperialistico e sociale si scontra con un potente blocco reazionario. Il blocco può essere identificato nei termini delle sue componenti sociali (di classe, evidentemente) ma anche attraverso i suoi mezzi di intervento politico e i discorsi ideologici che ne sono al servizio. In termini sociali, il blocco reazionario è diretto dalla borghesia egiziana presa nel suo insieme. Le forme di accumulazione dipendente in atto negli ultimi 40 anni hanno fatto emergere una borghesia ricca, esclusiva beneficiaria della scandalosa diseguaglianza che ha accompagnato questo modello “liberal-globalizzato”. Si tratta di decine di migliaia non di “imprenditori innovativi” – come dice la Banca mondiale – ma di milionari e miliardari che devono tutta la loro fortuna alla collusione con l’apparato politico (la “corruzione” è una componente organica del sistema).

Si tratta di una borghesia compradora (nel linguaggio politico corrente in Egitto il popolo li definisce “parassiti corrotti”), che costituisce il sostegno attivo dell’inserimento dell’Egitto nella mondializzazione capitalistica contemporanea, alleata senza riserve degli Stati Uniti. Nei suoi ranghi si contano numerosi generali dell’esercito e della polizia, molti “civili” associati allo Stato e al partito dominante (“nazional-democratico”) creato da Sadat e Mubarak, anche dei religiosi (la totalità dei dirigenti dei Fratelli musulmani e degli sceicchi di Al Azhar sono tutti “miliardari”). Esiste ancora certamente una borghesia di piccoli e medi imprenditori attivi, ma sono vittime del sistema di racket instaurato dalla borghesia compradora, ridotti nella maggior parte dei casi allo stato di appaltatori dominati dai monopoli locali, anche questi cinghie di trasmissione dei monopoli stranieri. Nel settore dell’edilizia, questa situazione è pressoché generalizzata: i “grossi” spazzano i mercati, poi li appaltano ai “piccoli”.
La borghesia di imprenditori autentici simpatizza con il movimento democratico. Il versante rurale del blocco reazionario non è meno importante. E’ costituito da agricoltori ricchi che sono stati i maggiori beneficiari della riforma agraria di Nasser, e si sono sostituiti alla vecchia classe di grandi proprietari. Le cooperative agricole costituite dal regime nasseriano associano i piccoli contadini e gli agricoltori ricchi e perciò funzionano soprattutto a beneficio dei ricchi.

Nell’Egitto moderno gli agricoltori ricchi hanno sempre costituito una classe reazionaria e oggi lo sono più che mai. Sono anche il maggior sostegno dell’Islam conservatore nelle campagne e con i loro stretti rapporti (a volte di parentela) con i rappresentanti dell’apparato statale e della religione (Al Azhar in Egitto è l’equivalente di una Chiesa musulmana organizzata) dominano la vita sociale rurale. Inoltre una buona parte delle classi medie urbane (in particolare gli ufficiali dell’esercito e della polizia, ma anche i tecnocrati e le professioni liberali) provengono direttamente dalla classe degli agrari.

Questo blocco sociale reazionario dispone di vari strumenti politici al suo servizio; l’esercito e la polizia, le istituzioni statali, il partito politico privilegiato (di fatto una specie di partito unico) – il Partito nazionale democratico creato da Sadat – l’apparato religioso (Al Azhar), le correnti dell’Islam politico (i Fratelli musulmani e i salafiti). L’aiuto militare concesso dagli Stati Uniti all’esercito egiziano (1,5 miliardi di dollari all’anno) non è mai stato destinato a rafforzare le capacità di difesa del paese ma ad annullarne il rischio mediante la corruzione sistematica, non conosciuta e tollerata, bensì deliberatamente fomentata, con cinismo. Quello “aiuto” ha permesso agli alti ufficiali di appropriarsi di segmenti importanti dell’economia compradora egiziana, al punto che in Egitto si parla della “società anonima militare” (Sharika al geish). I comandanti dell’esercito che hanno assunto la responsabilità di “dirigere” il periodo di transizione non sono affatto in una posizione “neutrale”, anche se hanno preso la precauzione di sembrarlo dissociandosi dalla repressione.

Il governo “civile” agli ordini dell’esercito (i cui membri sono stati nominati dall’alto comando) è composto da uomini del vecchio regime, scelti peraltro fra le personalità meno in vista, e ha preso una serie di misure perfettamente reazionarie destinate a frenare la radicalizzazione del movimento. Fra queste misure, una scellerata legge antisciopero (col pretesto di rimettere in marcia l’economia del paese), nonché un’altra legge che impone severe restrizioni alla formazione di partiti politici e che permette di entrare nel gioco elettorale solo alle correnti dell’Islam politico (i Fratelli musulmani, in particolare) già ben organizzate grazie al sostegno sistematico prestato dal vecchio regime.

E tuttavia l’atteggiamento dell’esercito resta del tutto imprevedibile. Malgrado la corruzione dei suoi quadri (i soldati sono dei coscritti, ma gli ufficiali sono di professione) il sentimento nazionalista non è del tutto assente e inoltre l’esercito soffre per essere stato praticamente escluso dal potere a favore della polizia. In questa situazione, e dato che il movimento ha espresso con forza la volontà di escludere l’esercito dalla direzione politica del paese, è probabile che l’alto comando decida di restare dietro le quinte e rinunci a presentare i suoi uomini alle prossime elezioni.


L’Islam politico

I Fratelli musulmani costituiscono l’unica forza politica che il regime aveva non solo tollerato, ma anche sostenuto attivamente. Sadat e Mubarak le avevano affidato la gestione di tre istituzioni fondamentali: l’istruzione, la giustizia e la televisione. I Fratelli musulmani non sono mai stati e non possono essere “moderati”, e ancor meno “democratici”. Il loro capo – il muchid (traduzione araba di guida, Führer) – è autoproclamato e l’organizzazione si fonda sul principio della disciplina e del’esecuzione degli ordini del capo, senza alcuna discussione. La direzione è costituita solo da uomini immensamente ricchi (grazie, fra l’altro, al sostegno finanziario dell’Arabia saudita, cioè di Washington), i quadri provengono dalle frazioni più oscurantiste delle classi medie, la base è costituita da gente del popolo reclutata attraverso i servizi caritativi offerti dalla confraternita (e sempre finanziati dall’Arabia saudita), mentre la forza d’urto è costituita dalle milizie (i baltagui) reclutate fra il sottoproletariato.

I Fratelli musulmani sostengono un sistema economico basato sul mercato e totalmente dipendente dall’estero. Sono di fatto una componente della borghesia compradora. Hanno preso posizione contro i grandi scioperi della classe operaia e le lotte dei contadini per conservare la proprietà della loro terra. I Fratelli musulmani sono quindi dei “moderati” solo nel senso che hanno sempre rifiutato di formulare un qualsiasi programma economico e sociale, e che di fatto non mettono in discussione le politiche neoliberiste reazionarie e accettano la subordinazione alle esigenze di controllo degli Stati Uniti nel mondo e nella regione. Sono dunque degli alleati utili per Washington (esiste un alleato migliore dell’Arabia saudita, che guida e controlla i Fratelli?) che ha concesso loro un “certificato di democrazia”!

Ma gli Stati Uniti non possono confessare che mirano a instaurare dei regimi “islamici” nella zona. Hanno bisogno di fingere che quello gli faccia paura. In questo modo essi legittimano la loro “guerra permanente al terrorismo” che in realtà persegue altri obiettivi: il controllo militare del pianeta che riserva a Stati Uniti-Europa-Giappone l’accesso esclusivo alle risorse. Vantaggio supplementare di questa duplicità: permette di mobilitare la “islamofobia” dell’opinione pubblica.

L’Europa, come è noto, non ha strategie particolari verso la regione, e si limita ad allinearsi giorno per giorno alle decisioni di Washington. E’ più che mai necessario rendere visibile questa autentica doppiezza della strategia statunitense, che manipola con efficacia e inganna l’opinione pubblica. Gli Stati Uniti (e dietro a loro l’Europa) temono più che mai un Egitto realmente democratico che rimetterebbe in discussione il suo allineamento sul liberismo economico e la strategia aggressiva degli Stati Uniti e della NATO. Faranno di tutto perché l’Egitto non sia democratico e a questo scopo sosterranno con tutti i mezzi – e con ipocrisia – la falsa alternativa dei Fratelli musulmani, che hanno dimostrato di essere solo una minoranza nel movimento del popolo egiziano per un cambiamento reale.

La collusione fra le potenze imperialiste e l’Islam politico non è d’altra parte una novità, né è un fenomeno peculiare dell’Egitto. I Fratelli musulmani, dalla loro creazione nel 1927 fino a oggi, sono sempre stati un alleato utile all’imperialismo e al blocco reazionario locale. Sono sempre stati nemici feroci dei movimenti democratici in Egitto. E i multimiliardari che oggi assicurano la direzione della confraternita non vorranno certo unirsi alla causa democratica! L’Islam politico è anche alleato strategico degli Stati Uniti e dei loro partner della NATO per quanto riguarda il mondo musulmano.

In Egitto i Fratelli musulmani sono ormai spalleggiati dalla corrente salafita (“tradizionalista”), altrettanto largamente finanziata dai paesi del Golfo. I Salafiti si dicono estremisti (wahabiti convinti, intolleranti di fronte a ogni altra interpretazione dell’Islam) e sono i mandatari di assassini sistematici perpetrati contro i copti. Operazioni difficili da immaginare senza il sostegno tacito (e a volte la netta complicità) dell’apparato statale, in particolare della giustizia, affidata in gran parte ai Fratelli musulmani. Questa strana divisione del lavoro permette ai Fratelli musulmani di sembrare moderati e gli Stati Uniti fanno finta di crederlo.

Si prospettano peraltro lotte violente entro le correnti religiose islamiche in Egitto, giacché l’Islam storico dominante nel paese è quello sufi, le cui confraternite radunano oggi 15 milioni di fedeli. Un Islam aperto e tollerante, che insiste sul convincimento individuale piuttosto che sulla pratica dei riti (dicono che ci sono tante vie che portano a dio quanti individui) e che è sempre stato sospettato dai poteri statali, i quali, d’altra parte, usando a turno il bastone e la carota, hanno sempre evitato la guerra aperta.

L’Islam wahabita del Golfo si pone invece agli antipodi: arcaico, ritualista, conformista, nemico dichiarato di ogni interpretazione diversa dalla propria, la quale non è che ripetizione dei testi, nemica di ogni spirito critico, assimilato al diavolo. L’Islam wahabita ha dichiarato guerra al sufismo, che vuole estirpare, e conta sull’appoggio del potere per riuscirci. Per reazione, i sufi di oggi sono laicizzanti, se non laici del tutto; chiedono la separazione fra religione e politica (il potere statale e quello delle autorità religiose riconosciute dallo Stato, l’Azhar). I sufi sono alleati del movimento democratico.


La strategia degli Stati Uniti: il modello pakistano

Le tre potenze che hanno dominato la scena mediorientale per tutto il periodo di riflusso (1967-2011) sono gli Stati Uniti – il patron del sistema – l’Arabia saudita e Israele. Si tratta di tre alleati strettissimi. Condividono tutti e tre l’incubo dell’eventuale emergere di un Egitto democratico, il quale non potrebbe essere che antimperialista e sociale, prenderebbe le distanze dal liberismo mondializzato, condannerebbe l’Arabia saudita e i paesi del Golfo all’insignificanza, rianimerebbe la solidarietà dei popoli arabi e imporrebbe il riconoscimento dello Stato palestinese da parte di Israele.
L’Egitto è una pietra angolare nella strategia statunitense di controllo del pianeta. L’obiettivo esclusivo di Washington e dei suoi alleati locali, Israele e Arabia saudita, è di far abortire il movimento democratico e per questo vogliono imporre un “regime islamico” diretto dai Fratelli musulmani, che è l’unico mezzo per perpetuare la subordinazione dell’Egitto. Il “discorso democratico” di Obama è destinato solo alle anime semplici, quelle degli Stati Uniti e dell’Europa in primo luogo.
Per prestare legittimità a un governo dei Fratelli musulmani (diventati democratici!), si parla molto dell’esempio turco. Ma anche qui si tratta di polvere negli occhi. L’esercito turco, sempre presente dietro le quinte, certamente non democratico e per di più fedele alleato della NATO, resta la garanzia della “laicità” della Turchia.Il progetto di Washington, apertamente dichiarato da Hillary Clinton, da Obama e dai think tanks al loro servizio, si ispira al modello pakistano: l’esercito (“islamico”) dietro le quinte, il governo (“civile”) nelle mani di un partito islamico “eletto”. In questo caso, evidentemente, il governo “islamico” egiziano sarebbe ricompensato per la sua subordinazione sui punti essenziali (accordo sul liberismo e sui “trattati di pace” che permettono a Israele di proseguire la sua politica di espansione territoriale) e a mo’ di compensazione demagogica potrebbe attuare i suoi progetti di islamizzazione dello Stato e della politica, e gli assassinati dei copti. Bella democrazia, quella voluta dagli Stati Uniti per l’Egitto!

L’Arabia saudita sostiene evidentemente questo progetto con tutti i suoi mezzi (finanziari). Riad sa perfettamente che la sua egemonia regionale (nel mondo arabo e musulmano) esige che l’Egitto sia ridotto all’insignificanza. E il mezzo è “l’islamizzazione dello Stato e della politica”: di fatto, un’islamizzazione di tipo wahabita, con tutti i suoi effetti, fra l’altro il fanatismo contro i copti e la negazione dei diritti delle donne.

E’ possibile questa forma di islamizzazione? Può essere, ma a prezzo di estreme violenze. La battaglia si combatte sull’articolo 2 della costituzione del regime decaduto, che recita: “la sharia è la fonte del diritto”. Si tratta di una novità nella storia politica dell’Egitto. Né la costituzione del 1923 né quella di Nasser l’avevano immaginato. E’ Sadat che l’ha introdotto nella sua nuova costituzione, con il triplice appoggio di Washington (“rispettare la tradizione”), di Riad (“il Corano vale come costituzione”) e di Gerusalemme (“lo Stato di Israele è uno stato ebreo”).

I Fratelli musulmani restano fedeli al loro progetto di formazione di uno Stato teocratico, come testimonia la loro difesa dell’articolo 2 della costituzione di Sadat/Mubarak. Inoltre il programma più recente dell’organizzazione rafforza ancora questa idea passatista con la proposta di istituire un “Consiglio degli ulema” incaricato di vegliare sulla conformità di ogni proposta di legge alle esigenze della sharia. Questo Consiglio costituzionale religioso è analogo a quello che in Iran controlla il “potere eletto”. Il regime diventa allora quello di un super-partito religioso unico e tutti i partiti che rivendicassero la laicità diventerebbero “illegali”. I loro sostenitori, come i non musulmani (i copti) vengono così esclusi dalla vita politica.

Malgrado tutto questo, le potenze di Washington e dell’Europa fanno finta di prendere sul serio la recente dichiarazione dei Fratelli che “rinunciano” al progetto teocratico (senza modificare il loro programma): una dichiarazione opportunistica e bugiarda. Gli esperti della CIA non sanno leggere l’arabo? Una conclusione si impone: Washington preferisce il potere dei Fratelli, che garantisce che l’Egitto resti nel suo girone e che la mondializzazione liberista continui indisturbata, in luogo di una democrazia che rischierebbe di mettere in questione la subalternità del paese.

I Fratelli, passando all’offensiva, hanno creato dei “sindacati”, delle “organizzazioni contadine” e una sequela di “partiti politici” con nomi diversi ma con l’unico scopo di dividere il fronte unito operaio, contadino e democratico in formazione, a vantaggio – beninteso – del blocco controrivoluzionario. Il movimento democratico egiziano riuscirà ad abrogare quell’articolo nella nuova costituzione che bisogna scrivere? Non si può rispondere a questa domanda se non si tornano ad analizzare i dibattiti politici, ideologici e culturali che si sono susseguiti nella storia dell’Egitto moderno.

Si vede infatti che i periodi di flusso sono caratterizzati da una diversità di opinioni apertamente manifestate che relegano sullo sfondo la “religione” (sempre presente nella società). Così è stato per due terzi del XIX secolo (da Mohamed Ali al Khedivé Ismail). La scena allora è dominata dai temi della modernizzazione (in una forma di dispotismo illuminato piuttosto che democratica). Lo stesso dal 1920 al 1970: c’è uno scontro aperto fra “democratici borghesi” e “comunisti” che occupano in gran parte la scena fino a Nasser. Egli abolisce questo dibattito sostituendovi un populismo panarabo, ma nello stesso tempo “modernizzante”.

I dibattiti in corso in Egitto vertono – esplicitamente o meno- sulla questione della pretesa dimensione “culturale” della sfida (in questo caso islamica). Indicatori positivi: sono bastate alcune settimane di libero dibattito per veder sparire lo slogan “l’islam è la soluzione” in tutte le manifestazioni, a vantaggio di rivendicazioni precise in termini di trasformazione concreta della società (libertà di opinione, di formazione di partiti, sindacati e altre organizzazioni sociali, salari e diritti del lavoro, accesso alla terra, scuola e sanità, rifiuto delle privatizzazioni e appello alle nazionalizzazioni ecc.)

Segnale inequivocabile: alle elezioni studentesche, la schiacciante maggioranza dei voti (80%) dati ai Fratelli musulmani cinque anni fa (quando erano accettati come pretesa opposizione) ha dato luogo nelle elezioni dello scorso aprile a una caduta dei Fratelli al 20%. Ma l’avversario sa bene come organizzare una risposta al “pericolo democratico”. Le modifiche insignificanti della costituzione (sempre in vigore) proposte da un comitato costituito esclusivamente da islamisti scelti dal Consiglio supremo (cioè dall’esercito) e adottate frettolosamente con il referendum di aprile (23% di “no”, ma una maggioranza di “sì” ottenuti coi brogli e con un ricatto di massa da parte delle moschee) non riguardano evidentemente l’art. 2. Sono poi previste delle elezioni presidenziali e legislative per settembre/ottobre 2011. Il movimento democratico si batte per una “transizione democratica” più lunga, per avere il tempo di raggiungere le masse diseredate.

Ma Obama ha fatto le sue scelte fin dai primi giorni dell’insurrezione: una transizione breve, ordinata (cioè senza mettere in discussione gli apparati del regime) ed elezioni (che diano la vittoria agli islamisti). Le “elezioni” – come è noto – in Egitto come nel resto del mondo, non sono il mezzo migliore per affermare la democrazia, ma spesso servono piuttosto a bloccare la dinamica democratica.

Infine qualche cenno circa la “corruzione”. Il discorso dominante del “regime di transizione” pone l’accento sulla denuncia, associata a minacce di azioni giudiziarie (si vedrà che cosa succederà in concreto). Questo discorso risulta certamente ben accetto, in particolare da parte della frazione più ingenua della pubblica opinione. Ma si evita di analizzarne le ragioni profonde e di far capire che la “corruzione” (presentata come una devianza morale, alla maniera del discorso moralistico statunitense) è invece una componente organica necessaria per la formazione della borghesia. Non solo nel caso dell’Egitto e nei paesi del Sud in generale, trattandosi della formazione di una borghesia compradora che per nascere deve necessariamente associarsi al potere statale.


La zona ciclonica

Mao non aveva torto quando affermava che il capitalismo (realmente esistente, cioè imperialista di natura) non aveva nulla da offrire ai popoli dei tre continenti (la periferia costituita da Asia, Africa e America Latina – una “minoranza” che costituisce l’85% della popolazione del pianeta!) e che dunque il Sud rappresentava la zona ciclonica, cioè delle rivolte ripetute, potenzialmente (ma non solo potenzialmente) portatrice di conquiste rivoluzionarie dirette verso il superamento socialista del capitalismo.

La “primavera araba” si inquadra in questa realtà. Si tratta di rivolte sociali potenzialmente portatrici di alternative che a lungo termine possono inserirsi nella prospettiva socialista. Per questa ragione il sistema capitalista, il capitale dei monopoli dominanti su scala mondiale, non può tollerare lo sviluppo di questi movimenti. Ricorrerà perciò a tutti i mezzi di destabilizzazione possibili, dalle pressioni economiche e finanziarie fino alla minaccia militare. Secondo le circostanze, appoggerà le false alternative fasciste o fascisteggianti, o anche le dittature militari. Non bisogna credere una parola di ciò che dice Obama. Obama è come Bush, ma con un altro linguaggio. C’è una doppiezza permanente nel linguaggio dei dirigenti della triade imperialista (Stati Uniti, Europa, Giappone). In questo articolo non ho intenzione di analizzare con precisione ognuno dei movimenti in corso nel mondo arabo (Tunisia, Libia, Siria, Yemen e altri). Le componenti dei movimenti sono diverse da paese a paese, come lo sono le forme del loro inserimento nella mondializzazione imperialistica e le strutture dei regimi esistenti. La rivolta in Tunisia ha dato il colpo d’avvio e ha molto incoraggiato gli Egiziani. D’altra parte il movimento tunisino beneficia di una vantaggio sicuro: la semi-laicità introdotta da Burghiba non verrà sicuramente messa in discussione dagli islamisti tornati dal loro esilio in Gran Bretagna. Ma nello stesso tempo il movimento tunisino non sembra attrezzato per rimettere in questione il modello di sviluppo inserito nella mondializzazione capitalistica di stampo neo liberista.

La Libia non è la Tunisia e neppure l’Egitto. Il blocco al potere (Gheddafi) e le forze che si battono contro di lui non hanno nulla di paragonabile a quanto esiste in Tunisia e in Egitto. Gheddafi non è mai stato altro che un burattino, e il suo “libro verde” ne denuncia il vuoto di pensiero. Operando in una società ancora arcaica, Gheddafi poteva permettersi di tenere discorsi – privi di effetti reali – “nazionalisti e socialisti”, e il giorno dopo allinearsi al “liberismo”. Lui lo ha fatto “per far piacere agli occidentali”!. Come se la scelta del liberismo non avesse alcun effetto sulla società. Ce ne sono stati, invece, e hanno aggravato le difficoltà sociali della maggior parte della popolazione. Si sono quindi create le condizioni per l’esplosione che si è vista, colta a volo dall’Islam politico del paese e dai regionalismi. Infatti la Libia non è mai esistita come nazione. E’ una regione geografica che separa il Maghreb dal Mashrek. La frontiera fra le due zone passa esattamente in mezzo alla Libia. La Cirenaica è storicamente greca ed ellenistica, poi è appartenuta al Mashrek. La Tripolitania è stata latina ed è diventata magrebina. C’è sempre stata quindi una base per i regionalismi. Non si sa chi siano realmente i membri del Consiglio nazionale di transizione a Bengasi. Forse ci sono anche dei democratici, ma ci sono sicuramente degli islamisti e – peggio ancora – dei regionalisti. Fin dalla sua origine, il “movimento” libico ha preso la forma di una rivolta armata, che ha aperto il fuoco sull’esercito, e non quella di un’ondata di manifestazioni civili. Questa rivolta armata ha chiamato immediatamente in soccorso la NATO, offrendo l’occasione per un intervento militare delle potenze imperialiste. L’obiettivo non è certamente “la protezione dei civili” e neppure “la democrazia”, bensì il controllo del petrolio e l’acquisto di una grande base militare nel paese. Certo, le corporations occidentali già controllavano il petrolio libico, dopo che Gheddafi aveva accettato il “liberismo”. Ma con lui non si era mai sicuri di niente: se poi voltava casacca e introduceva nel gioco i cinesi o gli indiani? Ma c’è qualcosa di più grave: dal 1969 Gheddafi aveva preteso l’evacuazione delle basi britanniche e statunitensi installate subito dopo la seconda guerra mondiale. Oggi gli Stati Uniti hanno urgente bisogno di trasferire in Africa l’Africom (il loro comando militare per l’Africa, una pedina importante del dispositivo di controllo militare del pianeta, che ha tuttora sede a Stoccarda). L’Unione africana lo rifiuta e fino a oggi nessuno Stato africano ha osato accettarlo. Un lacchè insediato a Tripoli (o a Bengasi) potrebbe invece accettare tutte le esigenze di Washington e dei suoi alleati subalterni della NATO. I dirigenti della rivolta in Siria non hanno fatto conoscere finora i loro programmi. Alla base dell’esplosione popolare c’è sicuramente la deriva del regime baathista, alleato al neoliberismo e stranamente passivo di fronte all’occupazione del Golan da parte di Israele. Ma non bisogna escludere l’intervento della CIA: si parla di gruppi che sono penetrati a Dira dalla vicina Giordania. La mobilitazione dei Fratelli musulmani, che avevano scatenato alcuni anni fa le insurrezioni di Hama e di Homs, non è forse estranea al complotto di Washington, che si sforza di spezzare l’alleanza fra Siria e Iran, che è fondamentale per appoggiare Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza.

Nello Yemen l’unità si era costituita sulla sconfitta delle forze progressiste che avevano governato il sud del paese. Il movimento saprà ridare vitalità a quelle forze? Per questa ragione si capiscono le esitazioni di Washington e del Golfo. Nel Bahrein la rivolta è stata soffocata sul nascere con l’intervento dell’esercito saudita che ha fatto un massacro, senza che i mass media trovassero nulla da ridire. Due pesi e due misure, come sempre.
La “rivolta araba” non è l’unico esempio, anche se è l’espressione più recente, della manifestazione dell’instabilità tipica di questa “zona ciclonica”. Una prima ondata di “rivoluzioni”, se si vuole chiamarle così, aveva spazzato via alcune dittature asiatiche (Filippine e Indonesia) e africane (in Mali) che erano state instaurate dall’imperialismo e dai blocchi reazionari locali. Ma lì gli Stati Uniti e l’Europa erano riusciti a far abortire la dinamica dei movimenti popolari, a volte giganteschi per le manifestazioni che avevano provocato. Gli Stati Uniti e l’Europa vogliono ripetere nel mondo arabo quel che è accaduto in Mali, nelle Filippine e in Indonesia: cambiare tutto perché non cambi niente. Laggiù, dopo che i movimenti popolari si erano sbarazzati dei dittatori, le potenze imperialiste hanno operato perché si mantenesse l’essenziale, insediando dei governi proni al neo-liberismo e agli interessi della politica straniera. E’ interessante constatare che nei paesi musulmani (Mali, Indonesia) l’Islam politico è stato mobilitato a questo fine.
L’ondata di movimenti di emancipazione che ha percorso l’America Latina ha invece permesso reali progressi nelle tre direzioni: la democratizzazione dello Stato e della società, l’adozione di coerenti posizioni antimperialistiche, l’impegno per riforme sociali progressiste.

Il discorso dominante sui media paragona le “rivolte democratiche” del terzo mondo a quelle che hanno posto fine ai “socialismi” d’Europa orientale dopo la caduta del “muro di Berlino”. Si tratta di una pura e semplice prevaricazione. Quali siano state le ragioni (comprensibili) delle rivolte in questione, quelle si inserivano nella prospettiva di un’annessione della regione da parte delle potenze imperialiste dell’Europa occidentale (in primo luogo a vantaggio della Germania). Di fatto, i paesi dell’Europa orientale, ridotti ormai a “periferie” dell’Europa capitalistica sviluppata, conosceranno domani la loro rivolta autentica. E ci sono già i segni che l’annunciano, in particolare nell’ex Jugoslavia. Le rivolte, potenzialmente foriere di conquiste rivoluzionarie, sono da prevedere ovunque o quasi nei tre continenti, che restano più che mai zone cicloniche, smentendo i discorsi dolciastri sul “capitalismo eterno”e la stabilità, la pace, il progresso democratico che vi vengono associati. Ma per diventare conquiste rivoluzionarie, quelle rivolte dovranno superare numerosi ostacoli: da una parte, rafforzare il movimento, costruire convergenze positive fra le sue componenti, ideare e attuare strategie efficaci, ma d’altra parte sbaragliare gli interventi (anche militari) della triade imperialista. Giacché non si può permettere alcun intervento militare degli Stati Uniti e della NATO negli affari interni dei paesi del Sud – quale che ne sia il pretesto, anche apparentemente giustificabile – come l’intervento “umanitario”. Per quei paesi, l’imperialismo non vuole né progresso sociale né democrazia. I lacchè che insedia al potere quando vince le battaglie resteranno sempre nemici della democrazia. Si può solo deplorare che la “sinistra” europea, anche quella radicale, abbia smesso di capire che cosa sia l’imperialismo.

Il discorso oggi dominante invita a statuire un “diritto internazionale” che autorizzi in via di principio di intervenire quando siano violati i diritti fondamentali di un popolo. Ma non esistono le condizioni per andare avanti in questa direzione. La “comunità internazionale” non esiste, si sintetizza nell’ambasciatore degli Stati Uniti, seguito automaticamente dai colleghi europei. E’ necessario rammentare la lunga lista di questi interventi più che disgraziati, anzi criminali nei loro risultati (come per esempio l’Iraq)? E’ necessario rammentare il principio dei due pesi e due misure che li caratterizza (si pensa subito ai diritti disconosciuti dei Palestinesi e all’appoggio incondizionato a Israele, e alle innumerevoli dittature sempre sostenute in Africa)?
La primavera dei popoli del Sud e l’autunno del capitalismo La “primavera” dei popoli arabi, come quella dei popoli d’America Latina da vent’anni in qua, che io chiamo la seconda ondata di risveglio dei popoli del Sud – la prima si era dispiegata nel XX secolo fino alla controffensiva del capitalismo/imperialismo neoliberista - riveste forme diverse, che vanno dall’esplosione contro le autocrazie che hanno accompagnato lo sviluppo neoliberista fino alla contestazione dell’ordine internazionale da parte dei “paesi emergenti”. Questa primavera coincide dunque con “l’autunno del capitalismo”, il declino del capitalismo dei monopoli generalizzati, mondializzati e finanziarizzati. I movimenti di oggi, come quelli del secolo precedente, partono dalla riconquista dell’indipendenza dei popoli e degli Stati della periferia del sistema, riprendendo l’iniziativa per trasformare il mondo. Si tratta dunque anzitutto di movimenti antimperialisti e quindi solo potenzialmente anticapitalisti. Se questi movimenti riuscissero a convergere con l’altro risveglio necessario, quello dei lavoratori dei centri imperialisti, si potrebbe disegnare una prospettiva autenticamente socialista su scala dell’umanità intera. Ma questo non è affatto già scritto come una “necessità della storia”. Il declino del capitalismo può aprire la strada a una lunga transizione al socialismo, o può spingere l’umanità verso la barbarie generalizzata. Il progetto di controllo militare del pianeta da parte dell’esercito degli Stati Uniti e dei loro alleati subalterni della NATO – che è sempre attuale – il declino della democrazia nei paesi del centro imperialista, il rifiuto passatista della democrazia nei paesi del Sud in rivolta (che assume la forma di illusioni para-religiose “fondamentaliste” proposte dall’Islam, dall’induismo e dal buddismo) operano insieme per questa orribile prospettiva. La lotta per la democratizzazione laica prende allora una dimensione decisiva in questo momento, quando la prospettiva di emancipazione dei popoli si oppone a quella della barbarie generalizzata.

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